La web tax “all’italiana” è una mossa autolesionista

Web tax all’italiana: se è necessario regolarizzare il settore con una fiscalità più equa, almeno lo si faccia con criterio e senza danneggiare le imprese italiane. La caccia alle streghe portata avanti dal PD contro i colossi del web avrà infatti un impatto negativo per gli operatori locali che paradossalmente si ritroveranno costretti a pagare il 3% in più sui servizi “digitali” rispetto alle aziende straniere che operano comunque sul nostro mercato. L’Italia è ancora una volta vittima dello statalismo e dell’improvvisazione populista.

Questa Legge di Bilancio diventerà famosa per un solo motivo: è stata introdotta una web tax inutile. La caccia alle streghe portata avanti da Francesco Boccia, presidente della Commissione Bilancio, contro i colossi del web avrà delle pesanti conseguenze. Per gli operatori italiani, però.

A cosa serve, dunque, questo ennesimo balzello? A niente. Eppure vi sarebbe necessità di regolamentare e porre qualche paletto (non troppi) per far pagare le tasse anche ai colossi del web in modo equo. Certamente non fatta in questa maniera raffazzonata e lesiva dei nostri stessi interessi nazionali.

Seguiamo l’iter illiberale e dannoso di questo pastrocchio populista che, peraltro, non servirà a salvare il PD nelle prossime elezioni. In prima battuta, il genio parlamentare ha partorito una tassa pari al 6% del fatturato, e non degli utili, per tutte le transazioni e operazioni commerciali che avvengono attraverso il web e sono digitali. Se non capite bene che cosa voglia dire tutto ciò, siete in buona compagnia.

Questo prelievo statalista inoltre era stato esteso alla dimensione B2C ossia dalle imprese ai consumatori. Si noterà così una triplice criticità: la norma era vaga e rimandava al Ministero dell’Economia la definizione delle attività digitali (altra burocrazia); la norma si riversava inevitabilmente sull’utente finale (consumatore per l’appunto); anche le imprese italiane erano gravate dalla nuova previsione normativa.

Di fronte alle evidenti lacune e al rischio di incappare in ricorsi giuridici in sede europea (che lo Stato italiano avrebbe perso inesorabilmente) la norma è stata cambiata. Nella versione finale del Bilancio 2018 avremo un’altra web tax. Quale? Una nuova imposta del 3% sulle vendite B2B, quindi solo per le aziende, di servizi legati alla pubblicità, alle analisi dei dati e al cloud. Ovviamente, per non incappare in problemi giuridici sovranazionali, la web tax si applica a tutti, anche agli italiani, che effettuano più di 3 mila transazioni annuali.

In termini pratici, un’azienda italiana di medie dimensioni che voglia acquistare un qualsiasi servizio da un’altra azienda, se ha già effettuato 3 mila transazioni, si trova un bel ricarico del 3%. Questo perché ha sede in Italia e dall’Italia acquista un servizio. Un’azienda straniera che opera anche in Italia sarà invece portata a fare un numero ridotto di transazioni sul suolo italiano e ad acquistare servizi dall’estero che può comunque utilizzare anche in Italia.

Dunque gli italiani pagano il 3% in più. Gli stranieri pagano normale, a prezzo di mercato, a casa loro e operano ugualmente in Italia. Non solo, quale azienda dall’estero vorrebbe stabilirsi in Italia se sa che per le transazioni più frequenti B2B sarebbero maggiorate del 3%?

La montagna statalista ha partorito un topolino rognoso. Il problema è che la rogna la porterà alla platea di soggetti che voleva difendere a tutti costi dalle multinazionali sporche e cattive. Che invece se ne staranno bellamente ad osservare, senza che la loro posizione venga minimamente intaccata. Bisognerebbe chiedere a Boccia e soci quale gusto provino ad auto-sabotarsi con queste proposte masochiste. Ma soprattutto perché ci godano così tanto a tartassare la libera impresa in Italia. Il 4 marzo si prevede piuttosto freddo dalle parti del Nazareno.

Giacomo Bandini

Laureato in Scienze del Governo presso l’Università LUISS Guido Carli con una tesi in Teorie e tecniche del lobbying, è Direttore Generale del think tank Competere – Policies for sustainable development. Nel 2016 è anche Project & Public Policy Manager della Fondazione Luigi Einaudi e Senior Analyst del Centro Studi di Confimprenditori. Attualmente sta svolgendo il dottorato di ricerca presso l’Università La Sapienza di Roma in Storia dell’Europa. Scrive e commenta l’attualità politica ed economica su alcune testate come Affari Italiani, Tempi, La Verità.

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