L’uso populistico del referendum

La traccia del principio di una società liberale – l’imperniarsi sul ruolo del cittadino – si evolve nel tempo e lascia il solco delle regole via via adottate, in forma di tradizione storica. Pertanto comparare le modalità organizzative delle istituzioni in due paesi, non può trasformarsi in un rispettivo adeguamento automatico.

E’ impossibile trapiantare un meccanismo in modo automatico senza rivedere anche l’impianto complessivo e la connessa mentalità civile. Ad esempio, in tema di referendum, sarebbe assurdo paragonare direttamente l’uso che se ne fa in Svizzera (una nazione che da 5 secoli si fonda sull’autogoverno dei cantoni e sulla attiva neutralità volontaria rispetto alle dispute di potere tra le altre) con quello che se ne può fare in Italia (una nazione che esiste da appena un secolo e mezzo, che è sorta accentrata su spinta del Regno di Sardegna, che ne ha conservato i caratteri e che ha una previsione costituzionale sulla guerra formulata con termini ideologico religiosi assai ambigui all’art. 11 correlato all’art. 78).

In Italia, regole istituzionali e procedure politiche hanno al centro il parlamento eletto dai cittadini. Nella Costituzione il referendum è una forma di controllo su molte decisioni del parlamento (non su tutte) per evitare che l’esercizio della rappresentanza non corrisponda alla volontà dei rappresentati. Questo importante approccio è circoscritto, eppure la legge attuativa del referendum tardò per oltre 25 anni. Arrivò per consentire ai cattolici, fulcro del Governo, di respingere la legge sul divorzio maggioritaria in Parlamento ma la sua prima applicazione nel ‘74 confermò la scelta compiuta dal Parlamento (con una percentuale identica a quella che nel 2016 ha invece bocciato la proposta oligarchica di riforma della Costituzione fatta approvare in Parlamento dal Governo Renzi).

Nel parlamentarismo liberale, l’incessante conflitto democratico tra i cittadini ha uno scopo. Mantenere istituzioni e rapporti civili adeguati al passar del tempo, col far decidere ai cittadini come cambiare le regole e quali iniziative socioeconomiche assumere, al fine di garantire al singolo cittadino la migliore capacità di vita e di espressione. E’ indubbio che in un simile processo è essenziale l’accrescere il peso del cittadino nella vita pubblica e dunque è determinante anche la cura dedicata a far sviluppare l’autogoverno regionale e le autonomie locali.

Sottolineo che questi principi non sono slogans. Sono criteri di comportamento irrinunciabili nella concezione liberale. E’ pertanto evidente che esaltare a parole l’individualismo, l’autogoverno, il diritto a decidere le forme istituzionali, configura una concezione politica liberale esclusivamente quando i comportamenti rispettano le regole di convivenza vigenti. Non rispettarle, qualunque sia l’atteggiamento nel farlo, equivale all’introdurre il criterio della violenza al posto di quello del confliggere democratico (diminuisce il peso civile del cittadino e aumenta quello della forza fisica di qualsiasi genere).

In queste settimane fioccano le applicazioni più o meno illiberali del ricorrere al referendum. Il caso più clamoroso sono le vicende spagnole, ove l’aspirazione separatista della regione catalana, di per sé legittima, ha pervicacemente adottato una linea contro la Costituzione spagnola (lo ha sancito due volte la Corte Costituzionale) pretendendo che i cittadini catalani decidessero sull’integrità della Spagna stando fuori delle regole spagnole (oltretutto usando questa pretesa incostituzionale come argomento di trattativa con Madrid). I due referendum in Lombardia e Veneto hanno in comune con il caso Catalogna solo il termine referendum, perché non si oppongono alla Costituzione italiana.

Però i liberali non possono non rilevare la forte stranezza politica dei loro quesiti. Domandare ai rispettivi cittadini se vogliono un maggior grado di autonomia rispetto al governo centrale, è una strana politica perché non da ai due Governatori una autonomia più ampia ed è un costo inutile per le casse regionali. La realtà è che si è ricorso al referendum per ammiccare ai fautori del separatismo imposto con la forza, agitando il sogno che sia possibile farlo votando sì (sogno drogato visto che una maggior autonomia dipende da una legge nazionale che la preveda). Il guaio è che un ammicco così rafforza l’idea populista che per ottenere le cose basti lo chieda una minoranza con forza e non occorra un meccanismo democratico, voluto secondo le regole dalla maggioranza dei rappresentanti dei cittadini. In ogni caso, l’esperienza ha provato l’impossibilità di governare un paese sostituendo il referendum al parlamento nell’ottica della democrazia diretta.

In materia di principi liberali violati, non ci si ferma ai referendum. Anche la nuova legge elettorale in discussione al Senato, invece di accrescere rappresentanza e sovranità del cittadino, ne diminuisce il ruolo. Infatti, prevede insieme collegio uninominale e liste concorrenti, senza però lasciare distinti i due rispettivi voti. Inoltre, nel voto espresso su liste concorrenti, nessuna di queste dovrebbe essere bloccata riguardo all’ordine di elezione.

Non è finita. A pochi mesi dalle politiche, sono alla ribalta le coalizioni. Però vuote. Il PD pensa solo a ricandidare Renzi e non ai programmi o ad alleati non succubi; nel centro destra Berlusconi ne parla sempre ma (secondo le reiterate dichiarazioni della Meloni) non c’è stato ad oggi nessun incontro per decidere su quali programmi coalizzarsi.

Tutte queste violazioni dei principi liberali fanno vedere che alle parole di condanna del populismo non corrispondono gli atti. Anzi se ne copia il sistema di far credere che possa essere produttiva la protesta senza progetto.

Raffaello Morelli

Raffaello Morelli, politico e autore liberale fin dall'epoca del PLI (e tutt'ora). E' stato dirigente nazionale di diverse associazioni liberali, ha svolto anche i ruoli di Consigliere Comunale a Livorno, Consigliere Regionale a Firenze e vice presidente della SACIS spa, redigendo migliaia di interventi e scritti politico culturali.

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