
Sul perchè non c’è classe dirigente (a Ferruccio De Bortoli)
Caro Dottore,
il Suo commento di stamani, “La classe dirigente che serve al paese”, è un articolo efficace che segnala una questione in Italia importante ed urgente . Quindi è una presa di posizione nella direzione giusta. Tuttavia temo che si limiti alla diagnosi e non entri abbastanza nella terapia.
La questione della classe dirigente deriva, come giustamente Lei argomenta, da quella del capitale umano. E quest’ultima è anche conseguenza alla scarsa attenzione al sistema formativo sul versante degli insufficienti investimenti. Non c’è dubbio. Ma la vera malattia non sta qui. Non sta solo nell’insufficienza degli investimenti, pubblici e privati. Né sta solo in una insufficiente responsabilità nazionale della classe dirigente privata, ricca, agiata e avveduta. Nè sta nei timori, per lo più strumentali, di un neostatalismo al servizio dei dirigenti pubblici di turno. Non per caso Lei annota di non contestare (ovviamente Lei , non molti altri) la centralità dell’istruzione pubblica.
La vera malattia – all’origine della grave carenza di classe dirigente – consiste nel tipo di formazione che viene data ai giovani cittadini, in tutti i tipi e le fasi della formazione.
Non vengono abituati ad affrontare i problemi che si presentano nel quotidiano e quindi a riflettere sul come risolverli. Viene loro trasmessa una cultura propria dei manuali statici, che hanno la pretesa di far vedere tutto del mondo e non ne fanno neppur lontanamente vedere i meccanismi. Perché stanno attenti alle relazioni amicali, non a quelle che fanno comprendere le cose Basti dire che oggi in Italia si persiste nel trascurare l’influenza del passar del tempo, nell’evitare fin’anche nel linguaggio qualsiasi riferimento all’individuo (che della convivenza è il motore), nel disinteresse per il confronto politico sui progetti nascosto dalle diatribe contingenti di potere, nel trascurare l’attenzione ai risultati di quanto viene fatto nel pubblico, nel fantasticare tuttora (nel 2020) che il lavoro e l’occupazione prescindano dall’intraprendere economico.
Per non dire infine della attitudine della professione giornalistica di vedere il mondo non come un grande insieme di fatti da far conoscere, bensì come un succedersi di eventi spettacolari da celebrare.
Per costruire un progetto paese nell’obiettivo di dare all’Italia una classe dirigente e un capitale umano – che nel mondo globalizzato sono oltretutto un parametro ineludibile – occorre trasmettere la cultura sperimentale della conoscenza affinché il senso critico individuale sia in grado di misurarsi con i problemi della vita reale nel tempo. E’ ovvio che un progetto del genere dovrà anche disporre delle risorse indispensabili. Ma senza la cultura giusta, non ci si arriverà mai.