Atac, liberalizziamo e ricominciamo

Atac è arrivata alla canna del gas. E’ tempo di prendere atto del fallimento della municipalizzata, che tiene letteralmente in ostaggio i cittadini romani, e voltare pagina. Come? Chiudere baracca e burattini, dichiarare il pre-fallimento e mettere a gara l’azienda nel 2019. Sdoganare il monopolio di Atac e aprire a nuovi soggetti avrà il vantaggio di operare un controllo sulla qualità del servizio offerto, assieme alla pretesa di rispettare il contratto del servizio, stimolando nuove imprenditorialità ad investire.

Atac è arrivata alla canna del gas. E’ tempo di prendere atto del fallimento della municipalizzata, che tiene letteralmente in ostaggio i cittadini romani, e voltare pagina. Come? Chiudere baracca e burattini, dichiarare il pre-fallimento e mettere a gara l’azienda nel 2019. Sdoganare il monopolio di Atac e aprire a nuovi soggetti avrà il vantaggio di operare un controllo sulla qualità del servizio offerto, assieme alla pretesa di rispettare il contratto del servizio, stimolando nuove imprenditorialità ad investire.

Nel frattempo è sempre il solito teatrino. Dirigenti che se ne vanno sbattendo la porta, sette stazioni della Linea A chiuse fino a settembre (con un preavviso di quattro giorni), traffico congestionato anche ad agosto. Il tutto a compromettere ogni possibilità di rilancio per il trasporto pubblico della capitale.

Il collasso a cui assistiamo in questi giorni è solo la punta di un iceberg fatto di sprechi, disservizi e mala gestione pubblica che si trascina da anni. Lo studio di Rosamaria Bitetti, “Trasporto pubblico, Roma ultima in Europa”, ha evidenziato alcuni numeri significativi che restituiscono la drammaticità della situazione.

Nel 2014 le entrate di Atac erano pari a 1.090.073.715 euro, mentre le spese ammontavano a 1.199.959.258, va da sé che una tale inefficienza finisca con il ripercuotersi sul cittadino, costretto a ripianare i buchi di bilancio. Sempre secondo lo studio, l’Atac paga stipendi medi superiori di circa 4000 euro rispetto alla sua equivalente parigina, nonostante il PIL regionale sia di gran lunga più alto che da noi (715.1 di Parigi contro 163.2 di Roma): un beneficio concentrato altissimo, ma molto più spendibile a livello elettorale dal momento che diventa più facile organizzarsi e fare pressione su una dinamica o una richiesta specifica. Tuttavia i vizi e i capricci di pochi non possono certo tenere in ostaggio i principi economici di una gestione pubblica efficiente.

E questo solo per quanto riguarda vertici e dirigenza Atac. Gli scioperi dei lavoratori si susseguono a ritmi insostenibili: solo considerando il periodo che va dal 12 giugno 2013 al 31 ottobre 2015, i lavoratori Atac hanno proclamato uno sciopero alla settimana (139, di cui 88 effettivamente realizzati). Guai a polemizzare sul sacrosanto diritto allo sciopero, ma vista la frequenza, il dubbio che ci si marci viene. Per questo si fa fatica ad inquadrare l’accordo raggiunto lo scorso dicembre tra Atac e i sindacati: in sostanza si stabilisce che i dipendenti potranno lavorare meno ore (736 ore all’anno contro le 1100 dei lavoratori di Milano) e non dovranno utilizzare il badge.

Ovviamente nessuno è riuscito a spiegare come questo accordo possa risolvere i problemi di debiti e disservizi di Atac, mentre ha tutta l’aria di una strizzatina d’occhio ai tanti furbetti del cartellino.  Ma anche volendo dare per buone tutte le rivendicazioni sindacali, si fa molta più fatica a giustificare l’elevata percentuale di assenteismo, pratica consolidata nel tempo, per cui mediamente ogni giorno manca all’appello il 15% dei dipendenti Atac.

È chiaro che il problema di Atac oggi non siano le sette stazioni chiuse della metro su un tratto frequentato non solo dai lavoratori ma anche dai turisti –e se ci giochiamo i turisti la situazione si fa brutta assai– la cui tratta viene “coperta” dal trasporto su gomma (mejo me sento, come direbbero i romani), quanto piuttosto una strategia di urbanizzazione inefficiente, la scarsa produttività del personale, cieche politiche di prezzo per le corse, l’evasione del pagamento delle tratte e il disinteresse dell’azienda nell’applicare le giuste sanzioni.

Atac non è un bene comune, il bene comune è il servizio offerto al cittadino, e ad oggi è un servizio pessimo e scadente, una presa in giro. Aprire le gare a più soggetti stimola un circolo virtuoso e attrae nuove imprenditorialità. Il quesito referendario proposto dai radicali sulla messa al bando del monopolio Atac, aprendolo alla concorrenza, aiuterebbe la capitale a prendere consapevolezza dei problemi, snocciolando cifre e numeri del disservizio, e la politica a capire che si è superato ogni limite.

Qualche commento dai palazzi? No, lì tutto tace.

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