La battaglia del grano rischia di diventare un boomerang agricolo

Le politiche protezionistiche hanno conseguenze negative nel medio e lungo termine come hanno ben argomentato Hume e Smith.

Tali effetti sfavorevoli sono ancora più evidenti in agricoltura, come ha dimostrato Ricardo. Così fu per i dazi inglesi (1815-1846) e più tardi per la battaglia del grano (1925) di ispirazione fascista. Allora l’Italia che inseguiva sogni autarchici sfiorò l’ autosufficienza e raggiunse il primato mondiale per capacità produttiva.

Ma il costo fu molto elevato: impoverimento del sistema agricolo con abbandono di colture più ricche e redditizie e diminuzione degli investimenti e della capacità di fare innovazione, aumento dei prezzi, oltre che il fisiologico isolamento e la conseguente riduzione della libertà dei cittadini di commerciare.

Oggi, un secolo più tardi, il ministro dell’Agricoltura Martina in compagnia del ministro dello Sviluppo Economico Calenda promuovono una nuova battaglia del grano le cui conseguenze potrebbero essere ancora più negative di allora dato il complesso ecosistema di scambi internazionali in cui fortunatamente ci troviamo ad operare. A dispetto delle regole europee il Governo italiano vorrebbe introdurre per la pasta l’indicazione obbligatoria di origine del grano: ogni pacco di pasta dovrà riportare il Paese da cui proviene il grano utilizzato per la semola. I pastifici impiegano semole ottenute dalla macinazione di miscele di grano duro provenienti da Paesi diversi, selezionate in base a criteri molto complessi tra cui le caratteristiche organolettiche, in particolare il tenore proteico, il glutine e la pigmentazione, che variano in funzione dei raccolti e dei fattori climatici. Per garantire standard qualitativi costanti è quindi necessario adottare politiche di approvvigionamento flessibili, incompatibili con le rigidità che si vogliono imporre in materia di etichettatura.

Con il decreto i due ministri sperano di migliorare la trasparenza a favore dei consumatori.

Purtroppo non è così. L’intento potrebbe essere buono ma le conseguenze, potrebbero non esserlo. (I) Con l’indicazione di origine si confonde il consumatore, inducendolo a preferire il Made in Italy e quindi i prodotti che contengono (solo) grano italiano. Gli si nasconde la verità: il grano nostrano non è sufficiente (per qualità e quantità), per fare buona pasta servono varietà di grano che quindi potrebbe dover essere importato.

(II) Si spingono le imprese produttrici ad inseguire commercialmente il consumatore in questa sua folle corsa verso il grano italiano, così come succede per i prodotti «senza». Si minaccia quindi, la qualità e soprattutto si perde la grande diversità che caratterizza il nostro mercato e lo rende competitivo a livello globale. In altre parole, per sostenere un settore produttivo se ne scontenta un altro che è certamente più dinamico sui mercati esteri.

(III) Produrre pasta è molto complesso, sta alla libertà di imprese ed imprenditori scegliere le miscele di grano da impiegare per garantirci un prodotto di qualità, a prezzi possibilmente competitivi per soddisfare un mercato più ampio. Se indicare l’origine del grano può essere certamente un invito alle imprese, non può diventare un obbligo o peggio un ricatto. Così come sarebbe più utile che i consumatori meglio comprendessero la complessità della filiera produttiva e le caratteristiche organolettiche della pasta, la cui qualità prescinde dalla geografia. (IV) Questo decreto è destinato a scontrarsi con la Ue che vuole tutelare il libero scambio ed evitare fenomeni di emulazione tra Paesi per materie diverse. Così come eventuali sanzioni a chi non applica la norma rischiano di finire impugnate davanti ad un giudice. Ma forse è quello che machiavellicamente un politico di razza cerca.

Resta il fatto che il vero obiettivo del decreto sia quello di favorire il grano italiano, con l’effetto di alterare il mercato a scapito dei consumatori e, nel lungo termine, degli stessi coltivatori.

Leggi l’articolo su La Stampa.

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